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domenica 2 settembre 2012

Lo schema di Ponzi dell’economia globale

Tratto dal libro PIANO B 4.0 - La pessima gestione dell’economia globale contemporanea assomiglia per molti versi a uno schema di Ponzi. Uno schema di Ponzi raccoglie denaro da un’ampia base di investitori e lo usa direttamente per redistribuire rendimenti. Crea l’illusione di promettenti rendite apparentemente dovute a oculati investimenti finanziari quando in realtà i proventi non sono altro che le quote di partecipazione versate dalle nuove reclute. Un fondo di investimento alla Ponzi può durare solo se l’afflusso di nuovi investitori è sufficiente a pagare le parti promesse agli investitori precedenti. Quando non basta più, il sistema collassa, proprio come nel caso del fondo di investimenti da 65 miliardi di dollari di Bernard Madoff nel dicembre del 2008. Sebbene l’economia globale non funzioni esattamente alla stessa maniera di un fondo di investimenti di Ponzi, ci sono delle somiglianze inquietanti. Fino al 1950 o giù di lì, l’economia globale viveva nei limiti delle proprie possibilità, intaccando solo ciò che era sostenibile ovvero la rendita fornita dai sistemi naturali che la sorreggevano. Ma nel momento in cui l’economia ha preso a crescere, moltiplicandosi con una progressione geometrica e ingigantendosi fino a superare il campo della sostenibilità, ha cominciato a
erodere le sue stesse fondamenta. In uno studio pubblicato nel 2002 dalla U.S. National Academy of Sciences, un gruppo di scienziati capitanato da Mathis Wackernagel ha concluso che i consumi globali della popolazione umana hanno oltrepassato le capacità rigenerative del pianeta intorno all’anno 1980. Nel 2009, le pressioni globali sui sistemi naturali eccedevano di circa il 30% il tasso di consumo sostenibile. Questo significa che per rispondere agli attuali bisogni stiamo consumando il capitale naturale del pianeta e costruendo una sorta di schema Ponzi in cui, quando questo stesso capitale sarà esaurito, andremo incontro a un tracollo. Alla metà del 2009, quasi tutte le grandi falde acquifere del mondo erano sottoposte a uno sfruttamento eccessivo. In puro stile Ponzi, abbiamo attualmente più acqua per usi irrigui di quanto ne avessimo prima di avviare questo processo di pompaggio insostenibile. Ci sembra che la situazione dell’agricoltura sia buona, ma la realtà è che circa 400 milioni di persone al mondo sono nutrite usando acqua che ha questo tipo di origine, una situazione che per definizione non può che essere di breve periodo. Con le falde acquifere destinate all’esaurimento, la bolla alimentare permessa dall’agricoltura di tipo irriguo sta per scoppiare. Simile è la situazione relativa allo scioglimento dei ghiacciai d’alta quota. Quando questo processo ha inizio, l’acqua che si riversa nei fiumi e nei canali d’irrigazione presenta un volume maggiore. Ma a un certo punto, che corrisponde alla scomparsa dei ghiacciai minori e alla riduzione di quelli maggiori, diminuisce la quantità d’acqua proveniente dalla fusione del ghiaccio e si riduce la portata dei fiumi. Ecco che in agricoltura agiscono simultaneamente due sistemi di Ponzi relativi alle risorse idriche. Ma ce ne sono molti altri. Dato che la crescita demografica della popolazione umana e di quella degli animali da allevamento ha un andamento più o meno parallelo, anche la richiesta di foraggio in aumento supera a un certo punto la capacità rigenerativa di prati e pascoli. Questi si deteriorano, lasciando la terra brulla e aprendo lo spazio all’avanzata dei deserti. Da un certo punto in poi, l’erba non basta più a nutrire gli ultimi capi di bestiame che deperiscono e muoiono. In questo schema di Ponzi, i pastori sono costretti ad affidarsi agli aiuti umanitari, o a emigrare verso le città. I tre quarti delle riserve di pesca degli oceani sono sfruttate al limite, o oltre, la loro capacità rigenerativa, oppure si stanno riprendendo da una precedente fase di sovrasfruttamento. Se continueremo a pescare ai ritmi attuali, molte zone oceaniche arriveranno al collasso. Una zona di mare, o di acqua dolce, si ritiene sovrasfruttata quando si preleva più pesce di quanto riesca a riprodursi. L’esempio classico è la zona di pesca del merluzzo al largo delle coste del Newfoundland in Canada: per lungo tempo una delle zone più pescose al mondo, è in crisi dall’inizio degli anni Novanta e potrebbe non riprendersi mai. Paul Hawken, l’autore di Moltitudine inarrestabile,* sintetizza così il fenomeno: “Al momento stiamo rubando al futuro, vendendolo nel presente, e questo lo chiamiamo Prodotto interno lordo. Sarebbe altrettanto facile avere un’economia basata sul miglioramento del futuro anziché sul suo saccheggio. Possiamo creare ricchezza per il futuro oppure sottrarla da esso. Il primo approccio possiamo considerarlo come una ricostruzione, il secondo assume il senso di uno sfruttamento”. La questione che sottende tutto questo è: se continueremo a comportarci come se nulla fosse, sfruttando oltre misura le falde idriche, i pascoli, i suoli agricoli, le riserve ittiche e sovraccaricando l’atmosfera di anidride carbonica, quanto ci vorrà prima che l’economia alla Ponzi cominci a sfaldarsi e collassare? Non lo sa nessuno. La nostra civiltà industriale non è mai giunta a questo punto prima d’ora. A differenza dello schema Ponzi di Bernard Madoff, che era stato creato nella consapevolezza che un giorno sarebbe crollato, la nostra economia globale adotta uno schema simile senza questa conoscenza. Il collasso non è stato pianificato, ma è il prodotto di forze di mercato, incentivi male indirizzati e indicatori di sviluppo di scarsa validità. Ci fidiamo del mercato perché è per molti versi un’istituzione straordinaria: muove le risorse con un’efficienza di mille volte superiore a qualsiasi ente centrale di pianificazione e riesce a mettere rapidamente in equilibrio domanda e offerta. Eppure anche il mercato ha le sue debolezze, fondamentali e potenzialmente fatali. Non rispetta i limiti di produzione sostenibile dei sistemi naturali. Inoltre, favorisce il breve sul lungo periodo, senza mettere in conto i bisogni delle generazioni future. Non incorpora nei prezzi dei beni i costi indiretti di produzione. Di conseguenza, non può trasmettere segnali che ci dicano che siamo, in realtà, cascati in una trappola di Ponzi. Oltre a consumare il nostro capitale, abbiamo ideato delle tecniche piuttosto intelligenti per non conteggiare i costi reali, un po’ come ha fatto la tanto disprezzata compagnia energetica texana Enron finita in bancarotta qualche anno fa. Per esempio, quando usiamo l’energia di una centrale a carbone, ci arriva a casa una bolletta mensile dal gestore locale. Nella bolletta sono inclusi i costi di estrazione mineraria, trasporto, gestione dell’impianto, generazione di elettricità e distribuzione verso le nostre case. Ma non sono inclusi, tra gli altri, i costi indiretti del cambiamento climatico legati alla combustione. Quella è una bolletta che pagheremo più tardi o che, più probabilmente, verrà consegnata ai nostri figli. Per loro sfortuna questa sorta di conguaglio per il nostro utilizzo del carbone sarà molto più costoso di quello che noi paghiamo attualmente. Quando nel 2006 Sir Nicholas Stern, ex-economista capo della Banca Mondiale, pubblicò il suo pionieristico studio sui costi previsti per il cambiamento climatico, parlò di un gigantesco fallimento del mercato. Si riferiva al fatto che il mercato ha fallito per la mancata inclusione dei costi del cambiamento climatico nel prezzo dei combustibili fossili. Secondo Stern, questi costi sono stimabili in migliaia di miliardi di dollari. La differenza tra il prezzo di mercato degli idrocarburi e il loro prezzo reale, comprendendo i costi ambientali e sociali, è stratosferica.43 In quanto operatori economici, sia che siamo consumatori, dirigenti aziendali, rappresentanti politici o finanzieri, tutti noi dipendiamo dal mercato per le informazioni che ci guideranno. Quindi, perché i mercati continuino a funzionare sul lungo periodo e affinché gli operatori economici possano prendere decisioni sensate, i mercati devono fornire informazioni attendibili e prima di tutto comunicare quello che è il costo reale dei prodotti. Ma il mercato fornisce informazioni incomplete, e si agisce pertanto di conseguenza, prendendo decisioni pessime. Uno degli esempi più lampanti del fallimento gigantesco del mercato si può trovare negli Stati Uniti, dove a metà del 2009 il prezzo della benzina oscillava intorno a 80 centesimi di dollaro al litro. Questo dato riflette solo il costo della ricerca ed estrazione petrolifera, della raffinazione del petrolio e della distribuzione della benzina fino alle stazioni di servizio. Non prende in considerazione i costi del cambiamento climatico e quelli dei sussidi statali all’industria petrolifera (come l’U.S. Oil depletion allowance), le crescenti spese militari per la protezione dell’accesso al petrolio in un Medio Oriente politicamente instabile e i costi sanitari dovuti all’aumento di malattie respiratorie legate all’inquinamento dell’aria. Secondo uno studio dell’International Center for Technology Assessment, questi costi sarebbero equivalenti, attualmente, a oltre tre dollari al litro per la benzina consumata negli Stati Uniti. Aggiunti i costi diretti di 80 centesimi di dollaro al litro, gli automobilisti dovrebbero pagare la benzina circa 4 dollari al litro. La verità è che bruciare benzina è estremamente costoso, ma il mercato ci dice che non lo è, distorcendo grossolanamente la struttura stessa dell’economia. Simile è la situazione del cibo. Se pagassimo i costi effettivi di produzione, compreso il prezzo reale del petrolio usato per produrre alimenti, il prezzo da pagare in futuro per le conseguenze del sovrasfruttamento delle falde acquifere, della devastazione dei terreni causata dall’erosione e delle emissioni di anidride carbonica legate al disboscamento, il cibo costerebbe molto di più degli attuali prezzi esposti sui cartellini del supermercato. Oltre a ignorare questi costi indiretti, il mercato non dà alcun valore al lavoro della natura. Ciò si è reso terribilmente evidente nell’estate del 1998, quando la valle del fiume Yangtze, in Cina, abitata da circa 400 milioni di persone, è stata devastata da una delle peggiori alluvioni della storia. Il danno risultante, stimato in circa 30 miliardi di dollari, è stato equivalente al valore della raccolta nazionale annuale di riso. Dopo settimane di alluvioni, il governo di Pechino ha imposto il divieto di abbattere alberi nel bacino dello Yangtze. La decisione è stata accompagnata da una nota in cui si ricordava che un albero vivo vale almeno tre volte un albero morto: il ruolo svolto dalla foresta nella protezione dalle alluvioni è stato riconosciuto come più importante del legname lì contenuto. Era come se il prezzo di mercato del legname fosse sempre stato scontato di un terzo.47 Il mercato non rispetta la capacità di carico dei sistemi naturali. Se, per esempio, una zona di pesca è continuamente sovrasfruttata, ne risulterà che la quantità del pescato tenderà a calare, i prezzi saliranno incoraggiando sempre maggiori investimenti in reti e pescherecci. Il risultato, inevitabilmente, sarà un crollo delle quantità pescate e il collasso della riserva ittica. Oggi abbiamo bisogno di adottare un modo di vedere che sia coerente con la realtà sul rapporto tra economia e ambiente. Abbiamo anche bisogno, più che mai, di leader politici che riescano a guardare alle cose in prospettiva. E visto che i consulenti più ascoltati dai governi sono gli economisti, abbiamo bisogno di economisti che sappiano pensare come ecologisti (Sir Nicholas Stern e Herman Daly, un pioniere dell’economia ecologica, ne sono rari esempi) o di un maggior numero di consulenti ambientali. Il comportamento del mercato, che evita di includere i costi indiretti di beni e servizi, è incapace di dare un valore al lavoro della natura e di rispettare limiti sostenibili di produzione, sta portando alla distruzione del sistema naturale su cui si regge tutto il sistema economico, generando una versione globale del sistema di Ponzi. A un certo punto, lo sfaldarsi dei rapporti tra economia e risorse naturali comincerà ad avere un costo sul piano politico, contribuendo al fallimento di un numero sempre maggiore di stati.

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